Ho iniziato a stare palesemente male a 16 anni, a 18 le cose sono velocemente peggiorate e arrivata a 19 nei momenti peggiori non potevo alzarmi dal letto. Negli anni successivi, non c’era antidolorifico che potesse aiutarmi: o meglio, ci sarebbe stato, ma nessun medico o medica si premurava di prescrivermi altro che i farmaci da banco o si preoccupava di farmi fare degli accertamenti, anche se nei picchi di dolore, che potevano durare anche 48h, non potevo dormire dal male e mi contorcevo a letto in un lago di sudore, preda di spasmi, crampi e fitte, l’addome segnato dall’eritema ab igne che mi provocavo cercando sollievo nel calore.
Intorno ai 28 anni si sono aggiunti altri dolori. Bruciori epidermici come al tocco di un ferro incandescente, sensazioni di pungiglioni conficcati nella carne, dolori urenti e trafittivi anche agli organi interni. Il dolore costante mi pone in un quadro infiammatorio perenne che facilita infezioni ricorrenti di vario tipo.
Arrivata a 31 anni sto talmente male che ho difficoltà a camminare e stare seduta, ma fortunatamente, grazie a una ricerca incessante in rete e nei gruppi di persone malate che si scambiano esperienze, sintomi, nomi e consigli, trovo la dottoressa che finalmente riconosce la prima delle mie patologie attraverso la diagnosi corretta e mi avvia alla terapia per la gestione della sintomatologia. Se i farmaci giusti mi aiutano con metà dei miei dolori, l’altra metà invece non accenna a diminuire. Anzi, si fa così specifica e peculiare che ancora una volta, grazie a testimonianze di altre persone malate, mi riconosco nei sintomi e mi muovo per trovare risposte.
A 37 anni finalmente ottengo la prescrizione per fare l’esame giusto presso lo specialista giusto che conosce proprio quella patologia lì, quella che sto cercando di accertare: arriva la seconda diagnosi.
Per dare un nome al mio dolore ci sono voluti quasi cinque anni per una patologia e oltre venti per l’altra. Venti.
Per dare un nome al mio dolore ho dovuto sempre insistere e impuntarmi di fronte a professionisti e professioniste che dicevano che non avevo nulla; ho dovuto peregrinare cercando figure che fossero davvero competenti nel merito, perché purtroppo la maggior parte non è assolutamente in grado di riconoscere e diagnosticare le malattie che mi hanno colpita, anche se fanno parte del suo campo di specializzazione.
Con la seconda patologia, nonostante l’enorme ritardo diagnostico, sono stata relativamente fortunata: è una malattia sistemica degenerativa e avrei potuto arrivare al giorno della diagnosi in condizioni disastrose, con gli organi interni compromessi e con operazioni chirurgiche impegnative da affrontare. Con la prima patologia invece lo sono stata meno: di per sé non comincia come malattia cronica, ma il ritardo diagnostico ha fatto sì che lo diventasse. Le malattie croniche, per loro stessa definizione, non guariscono. La terapia aiuta a tenere sotto controllo i sintomi, tutto qui. La tempestività nella diagnosi è cruciale per intervenire prima che sia troppo tardi. Negli anni in cui peregrinavo alla ricerca di risposte, dottori e dottoresse che mi hanno congedata senza dare ascolto ai miei sintomi mi hanno letteralmente condannata.
A oggi le terapie fisiche e farmacologiche, le visite, i controlli etc. sono totalmente a mio carico perché il Servizio Sanitario Nazionale non passa nulla.
La mia vita si è dovuta profondamente adattare alla cronicità della malattia. Ci sono molte cose che non posso più fare. La giornata è scandita dall’assunzione dei farmaci e dai segnali di stanchezza che il mio corpo mi manda. So che devo rispettarli, altrimenti i sintomi si aggravano. Il mio corpo vive in una condizione di infiammazione sistemica costante che lo rende più stanco, vulnerabile e predisposto alle infezioni. La noncuranza medica degli anni passati mi è costata anche molte infezioni recidive e un ricovero.
In questi anni, mentre spendevo un patrimonio per cercare risposte (letteralmente: coi soldi che ho speso dentro gli studi medici avrei potuto dare l’anticipo per l’acquisto di una casa), mi sono sentita dire dalle figure professionali che avrebbero dovuto curarmi: di essere troppo sensibile; di andare dallo psicologo, perché chiaramente avevo problemi psicologici che somatizzavo; di fare un figlio perché così mi sarebbe passato tutto; non sono mancate battute di compatimento per il mio compagno che poverino, doveva stare con una malata; uno specialista addirittura mi ha detto, cito testualmente, che faccio “una vita di m*rda”. Questo solo per fare alcuni esempi.
Non ha molta importanza in questo discorso di cosa io sia malata, ma ne ha molta quello che ho vissuto sulla mia pelle: si chiama gaslighting medico, che si pone nel panorama più ampio della violenza in ambito sanitario (il termine deriva da un’opera teatrale britannica degli anni trenta in cui il protagonista cerca di portare alla follia la moglie attraverso l’invalidazione della sua capacità di discernimento, manipolando alcuni oggetti di casa come le lampade a gas – gaslight appunto – affievolendone le luci: la moglie nota i cambiamenti ma quando ne parla al marito si sente rispondere che nulla di ciò che dice di notare e vedere è reale. Da qui il termine gaslighting, ampiamente usato in psicologia e poi mutuato per descrivere lo stesso atteggiamento da parte della classe medica verso i pazienti e molto più spesso verso le pazienti).
Il gaslighting medico è ampiamente diffuso e basta fare una ricerca in rete per leggere un’infinità di testimonianze. Non riguarda solo le donne, ma anche altre categorie marginalizzate come le persone trans, con disabilità, obese, solo per citarne alcune.
Parlando di donne, è praticamente lo standard con cui queste si trovano ad avere a che fare; in particolare quando sono colpite dalle patologie che ho io, tutte – ripeto, tutte – prima di essere adeguatamente ascoltate, credute e curate, ricevono questo trattamento, tanto che il ritardo diagnostico medio per queste due patologie va dai 5 ai 10 anni. E non sono malattie rare: colpiscono rispettivamente oltre 4 e oltre 3 milioni di donne solo in Italia, approssimando per difetto.
La mancanza di attenzione verso il dolore femminile, la tendenza a minimizzarlo, la convinzione che per la donna sia normale soffrire, l’abitudine a invalidare l’autenticità del dolore riferito dalle pazienti, non sono comportamenti isolati di singoli medici: sono espressione di un radicato sistema culturale, che vuole le donne da un lato destinate alla sofferenza per biblica decisione, dall’altro esseri deboli e inaffidabili, preda delle loro tare mentali e predisposte alla follia (ci ricordiamo le donne rinchiuse in manicomio nell’Ottocento per “isteria”?).
Per dare l’idea del fenomeno di cui stiamo parlando: una donna che arriva in pronto soccorso con un infarto in corso ha il 46% di probabilità in più di un uomo di morire, perché spesso riceve una diagnosi errata, come gastrite o attacco di panico (eccoci di nuovo, la donna ansiosa che è preda della debolezza della propria mente) e rimandata a casa senza ricevere le cure adeguate.
Nel panorama della violenza sanitaria sulle donne ricadono anche altre casistiche, ne elenco alcune a puro titolo esemplificativo e non esaustivo:
– la violenza ostetrica, che consiste nello stesso tipo di atteggiamento assunto nei confronti della partoriente, in abusi verbali e fisici perpetrati durante il travaglio e il parto, in violazioni della privacy come visite vaginali effettuate davanti a sconosciuti non legati all’assistenza al parto, in alcuni casi addirittura mariti di altre partorienti, in manovre (come la famigerata manovra di Kristeller) e operazioni non autorizzate ed eseguite non solo senza il consenso della paziente ma addirittura senza nemmeno informarla, ancora peggio senza anestesia, come per esempio l’episiotomia o l’induzione. Da un’indagine di qualche anno fa emerge che oltre il 20% di donne subisce questo genere di violenza quando partorisce;
– la mancata richiesta di consenso alla paziente durante le visite mediche: la figura sanitaria dovrebbe sempre chiedere il consenso alla paziente prima di effettuare qualsiasi azione che comporti toccarne il corpo e dovrebbe sempre spiegare cosa sta facendo in ogni passaggio della procedura, sia per rispetto del diritto della paziente a essere informata passo passo, sia per tranquillizzarla in ottica di massima collaboratività, chiedendole feedback regolari e fermandosi al primo segno di disagio o di dolore. Sappiamo, dalle innumerevoli testimonianze reperibili online e che di recente cominciano a essere raccolte da pagine divulgative che intendono mettere in luce il problema, che i parametri sopra descritti non vengono quasi mai rispettati (vi suggeriamo di dare un’occhiata su Instagram al lavoro di raccolta testimonianze che sta facendo l’Osservatorio Salute Genova).
Spesso questo discorso viene accolto con disprezzo dalla categoria medica, che risponde portando all’attenzione casi come la medicina d’urgenza in cui non si può certo chiedere alla persona incosciente l’autorizzazione a intubarla o a farle un massaggio cardiaco: trovo queste risposte pretestuose e inutilmente polemiche, dal momento che è ovvio che le casistiche a cui ci si riferisce per la richiesta di consenso al tocco del corpo altrui o di informativa sulle procedure che si eseguiranno non siano quelle riferibili all’urgenza ma a condizioni in cui la paziente è cosciente e consapevole.
Nell’esperienza comune è normale che una visita ginecologica, per esempio, si svolga senza che venga chiesto alla paziente se è pronta per l’inserimento dello speculum o per l’esplorazione manuale e senza che venga spiegato quello che si sta facendo e cosa si sta rilevando man mano che si procede. Ecco, non è normale. Siamo abituate a questi modi di fare così tanto che non ci rendiamo nemmeno conto di quando vengono violati i nostri diritti. Il corpo è tuo e nessuno ha diritto di toccarlo senza che tu abbia preventivamente dato esplicito consenso. Il consenso è necessario e assolutamente non opzionale.
L’aspetto che fa più riflettere è che i comportamenti descritti sopra siano agiti non solo da medici ma anche e soprattutto da mediche, che teoricamente, proprio perché facenti parte della categoria vittima del tipo di violenza di cui parliamo, dovrebbero essere più attente e sensibili al problema. Invece non è così, principalmente per due motivi.
Il primo è perché la violenza sanitaria sulle donne è una sottocategoria della violenza di genere, e questa a sua volta è una delle tante espressioni del sistema sociale di stampo patriarcale, che produce quello che viene definito maschilismo interiorizzato (cioè messo in atto dalle stesse donne), uno dei nodi più problematici e difficili da sciogliere, proprio perché moltissime donne non si rendono nemmeno conto di esserne impregnate e ripetono quindi gli stessi schemi tossici nella vita e nella professione.
Il secondo motivo è perché non esiste, a oggi, nei percorsi universitari e di formazione sanitaria, un’attenzione specificamente dedicata al riconoscimento e allo smantellamento di questo sistema, e di conseguenza dipende tutto dalla sensibilità e dall’intelligenza del personale sanitario.
Per questo è necessario conoscere i propri diritti e pretendere di essere ascoltate, di essere credute e di essere curate con coscienza e subito, non tra dieci anni e dopo aver buttato decine di migliaia di euro in visite private alla ricerca dello/a specialista che ci ascolti.
Ed è necessario fare un appello a chi la categoria medica la compone, affinché apra gli occhi e interroghi prima di tutto sé stessa per capire questi problemi strutturali, per decostruire questo approccio e per costruirne uno nuovo e più sano, sicuramente più gratificante anche per la categoria stessa.
Non è tollerabile e non dobbiamo più accettare che possa esserci una vita rovinata per il mancato ascolto da parte di chi avrebbe dovuto aiutarci e curarci.
C.