Abbiamo parlato di body positivity e della maledetta “prova costume” (QUI), ovvero di quella terribile idea per cui non tutti i corpi sono adatti a essere mostrati in spiaggia, tanto meno in succinti costumi da bagno.
Demonizziamo però la mentalità (o meglio, la società che ci vuole per forza magr* – ma non troppo -, tonich*, abbronzat*, ecc.), non l’indumento!

Come nascono questi striminziti capi d’abbigliamento?

Nel XVIII secolo inizia a diffondersi l’idea che sia di beneficio per la salute svolgere attività balneari in acqua: ovviamente, però, immergersi in mare non è un passatempo considerato adatto alla popolazione femminile, che quindi può farlo solo in parte e comunque con lunghi e ampi abiti di lino con orli in piombo, che coprono interamente il corpo.

Nel corso del diciannovesimo secolo questi abiti vengono man mano resi meno ampi, mantenendo comunque una copertura totale della pericolosissima silhouette femminile.

Procediamo velocemente e arriviamo alla prima vera svolta: è l’inizio del 1900 quando Annette Kellerman, una nuotatrice professionista australiana, dà scandalo indossando un costume a un pezzo unico, una specie di tuta più o meno attillata che lascia le braccia scoperte.

Fuori dalle competizioni sportive, in cui viene accettato questo capo, anche se con molte riserve, su una spiaggia del Massachusetts Annette viene arrestata per uno scandaloso costume che lascia scoperte addirittura anche le gambe.

Pian piano, però, iniziano a essere introdotti costumi sempre più simili a quello che oggi consideriamo “intero”, sempre con iniziali scandali e scossoni, per poi arrivare a un’accettazione più o meno ampia.

Come si arriva, però, al “due pezzi”?

È il 1932 e il couturier parigino Jacques Heim lancia l“Atome”: il primo costume in due pezzi che qualche coraggiosa inizia a indossare, mostrando un ventre fino ad allora sempre nascosto.
C’è stato un periodo in cui pensavamo che l’atomo fosse la più piccola parte in cui si potesse dividere la materia… Be’, ci sbagliavamo.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’ingegnere automobilistico Louis Réard, ispirato da alcune donne che arrotolavano i propri costumi “Atome” per aumentare l’esposizione della pelle al sole e dopo aver preso le redini della materna boutique di lingerie, decide di ridurre ancora la quantità di stoffa dei costumi a due pezzi (una scelta anche economica), realizzando di fatto il “Bikini”.
Il nome riprende il concetto “atomico”, essendo ispirato all’atollo delle Isole Marshall, bombardato da test nucleari statunitensi nel luglio del 1946.

L’impatto è anche più esplosivo: Réard dovette ricorrere al favore di Micheline Bernardini, ballerina senza veli al Casino de Paris, per presentare il suo nuovo costume alle piscine Molitor di Parigi. 

Ovviamente l’accoglienza è MOLTO RUMOROSA.

In molti paesi il costume è bandito, il Vaticano esprime pareri a dir poco molto critici.

Louis Réard però ricevette anche molte lettere di approvazione, soprattutto da uomini. 

Direte voi: quindi il bikini è un indumento striminzito ideato da un uomo (anzi, due uomini), talmente tanto audace da essere stato indossato per la prima volta da una donna il cui lavoro era proprio quello di piacere agli uomini?
Verissimo, ma non vediamo sempre tutto solo con occhi accusatori.

Negli anni Sessanta il costume a due pezzi diviene simbolo della rivoluzione sessuale e della riappropriazione del proprio corpo da parte delle donne: perché, se anche sono stati degli uomini a progettare questo indumento, ricordiamo che erano stati proprio degli altri uomini a costringerci a coprire il nostro corpo all’inverosimile, a nasconderlo, a considerarlo satanico e peccaminoso.

Anche solo la possibilità del bikini, ovvero di un capo che lascia scoperto il nostro corpo in pubblico senza essere necessariamente un indumento sexy, è una rivoluzione di per sé.
Ci regala una scelta che prima era inimmaginabile: posso andare in spiaggia, posso fare il bagno in mare, posso nuotare, posso prendere il sole e posso mostrare il mio corpo, non devo più nasconderlo e vergognarmene.

Proprio per questo, al bikini non interessa la prova costume. 

E non dovrebbe interessare manco a noi: mettetevi il costume che vi piace di più, che vi fa stare meglio, che vi sentite più comodo addosso e buttatevi in acqua, ché è una goduria. Come la libertà.

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