Eccezion fatta per l’arte contemporanea, vi sarà capitato di notare che in tutta la restante parte della storia dell’arte non sono presenti artiste, o se lo sono, compaiono in misura microscopica. Come per tutti i mestieri e le attività che si svolgono fuori dalle mura domestiche, per lunghissimo tempo le donne, oppresse dal sistema patriarcale, sono state escluse dal mondo dell’arte: anche quando imparavano una tecnica artistica, era comunque per loro interdetta la possibilità di essere artiste professioniste, e i loro lavori restavano sconosciuti. Questo ci mette di fronte a un vastissimo periodo artistico, dall’antichità fino quasi al novecento, che soffre una gravissima mutilazione dovuta a un sistema di prevaricazione di un genere sull’altro. Abbiamo perso nei meandri del tempo migliaia di nomi, di storie, di opere che avrebbero potuto essere e che non sono stati.

La nostra stessa concezione di arte, quello che sappiamo, quello che è scritto nei libri, quello che è conservato nei musei delinea di questo campo dell’umana esperienza (non meno che di molti altri) un’immagine monca, irrimediabilmente parziale, tremendamente alterata, e soprattutto impossibile da integrare. Ne sia dimostrazione il fatto che non appena le donne hanno modo, in età contemporanea, di accedere a pieno titolo all’esperienza artistica, la storia dell’arte si popola di nomi femminili.

Il nostro intento qui è di raccontarvi la storia di alcune splendide artiste il cui nome è giunto fino a noi, e delle quali in tempi purtroppo solo recenti si è tentato di ricostruire storia e carriera. 

Camille Claudel è una delle tante storie spezzate, non pervenute, di artiste solo appena accennate nei libri di testo, e a lungo abitante di quello che potremmo definire museo invisibile. Camille nasce in Francia nel 1864 e fin da bambina mostra un’abilità fuori dal comune nel plasmare la materia. A sei anni lavora la terra della collina vicino a casa in opere considerate da tutti eccezionalmente mature per la sua età. Il padre, entusiasta, incoraggia e sostiene per tutta la vita la passione, poi lavoro, della figlia; la madre, piena fino all’orlo di ciò che oggi identifichiamo senza sforzo come patriarcato interiorizzato e pregiudizio borghese, trova disdicevole ai limiti della ripugnanza l’attitudine della figlia e la ostacola in ogni modo. Proprio per permettere a Camille di avere la giusta formazione, dopo anni di lezioni private il padre trasferisce la famiglia a Parigi, dove la figlia adolescente entra all’Accademia Colarossi, che accetta anche studentesse e permette loro di lavorare dal vivo su modelli maschili di nudo. È qui che Camille conosce quello che sarà il suo più grande amore e la sua più terribile condanna: lo scultore Auguste Rodin. Quando si incontrano la prima volta lei ha 16 anni e lui 41, quando comincia la loro relazione lei 20, lui 45. Sebbene le fonti definiscano questo rapporto un amore tumultuoso, passionale e lacerante per entrambi, così innamorati e così osteggiati dal mondo per la differenza d’età, non possiamo che osservare, con un approccio meno romanzato, come siano ravvisabili tutti gli elementi di un rapporto abusante: differenza d’età e ruoli – maestro/allieva – pongono le basi per un devastante squilibrio di potere all’interno della coppia, cha sarebbe già stata squilibrata anche solo per il fatto di vivere in un’epoca in cui il predominio maschile sulle donne è ancora nettissimo; per tutta la durata del loro rapporto, Rodin tiene Claudel perennemente in attesa e soggiogata con la promessa che lascerà moglie e figlio per sposare lei (cosa che ovviamente non accadrà mai, mentre la speranza di Camille continuamente disillusa altro non farà che consumarne la salute fisica e mentale) e con la promessa che la introdurrà negli ambienti di committenza che contano, altra cosa mai pienamente avveratasi. 

Se da una parte fin da subito Rodin è impressionato dall’abilità di Claudel, dall’altra pare avere il terrore che possa rivelarsi per lui una concorrente feroce – per di più donna! – tanto da prenderla presto con sé come assistente nel proprio atelier, dove può controllarla e contenerla, ancora prima di iniziare la relazione con lei. Oggi sappiamo che lo scultore si è avvalso non solo del suo consiglio ma anche della sua abilità manuale, chiedendole di intervenire nei dettagli più complessi delle sue opere, nelle mani, nei volti che mostrano una delicatezza e una finezza di tratto che ora si sa essere opera di Claudel, perché presenti come cifra stilistica nei di lei lavori ma assenti in quelli del maestro in cui lei non interviene. Per concludere il ritratto di questo rapporto abusante aggiungiamo che quando Claudel resta incinta di Rodin lui sparisce per molti mesi mentre lei, ritiratasi in campagna per non destare pettegolezzi, finisce per avere un aborto spontaneo, oppure che, quando lei stringe un’amicizia con Debussy che potrebbe tradursi in un rapporto passionale, Rodin torna alla carica strappandola al contendente e ricacciandola nel vortice di tossicità e abuso psicologico. 

Quando Rodin decide una volta per tutte di restare con compagna e figlio, l’equilibrio psichico di Claudel cede definitivamente. La famiglia, eccetto il padre che la aiuta a mantenersi e la sostiene sempre, l’ha di fatto ripudiata e non le parla, ritenendo la sua condotta di vita scandalosa. Non guadagna abbastanza per comprarsi vestiti nuovi e a volte nemmeno legna da ardere per scaldarsi d’inverno. Vive chiusa nel suo studio, lavorando febbrilmente e uscendo solo di notte per vagare disperata senza meta. Sviluppa disturbi mentali arrivando a pensare che Rodin le abbia rubato non solo la vita e la felicità ma anche il talento artistico e di non essere quindi più in grado di comporre lavori decenti. Arriva a distruggere molte delle sue stesse opere. 

Quando nel 1913 l’amato padre muore, la madre di Camille, ormai priva di ostacoli e supportata nella decisione dalla seconda figlia e dal figlio, compie la più crudele delle vendette verso quella donna tanto disdicevole e ribelle: la fa internare in manicomio, contro addirittura anche il parere dei medici e negandole ogni visita e il balsamo della corrispondenza. E così sarà: nessuno andrà mai a trovarla e nessuno le scriverà mai una lettera, mentre lei, disperata, prova anche a scrivere a un avvocato e a un medico di sua conoscenza per implorarli di aiutarla a uscire da quell’inferno. A nulla valgono i suoi tentativi. La madre sparge la voce che la figlia sia morta già nel 1920. Camille resta in manicomio per trent’anni, e lì muore, nel 1943, di fame, perché durante la seconda guerra luoghi come prigioni e manicomi erano ultimi nella lista di distribuzione del poco cibo razionato che vi era a disposizione, tanto da contare la disgraziata cifra di 40mila pazienti psichiatrici morti tra il ‘40 e il ’44. Nessuno della famiglia partecipa al funerale, il suo cadavere viene gettato in una fossa comune e mai più reclamato. 

Sebbene non sia nostra intenzione descrivere un’artista in base agli uomini della sua vita, nel caso di Camille Claudel ci è necessario raccontare la sua storia con Rodin perché se è vero che quasi tutta la sua vita da donna adulta e libera è trascorsa come amante, convivente e collaboratrice dell’uomo, è vero anche che tantissimo di tutto ciò confluisce nella sua produzione artistica: Camille vive attraverso le sue opere e attraverso le sue opere immortala pulsioni, sentimenti, esperienze. In esse racconta il rapporto difficilissimo con una madre che non l’ha mai voluta per quella che era, l’amore irrinunciabile per l’arte, ma anche e soprattutto il rapporto col maestro: mentre le opere del periodo felice sono profondamente sensuali ed erotiche, quelle del tracollo portano in sé tutta la tragedia di un amore calpestato e rifiutato, dell’abbandono, della solitudine, della disperazione. Ne vogliamo ricordare due su tutte.


“Il Valzer” illustra due figure abbracciate, leggere, quasi evanescenti nonostante la materia bronzea. Sono un uomo e una donna, lei tiene la testa posata sulla spalla di lui, lui si china a baciarla tenendole la vita con un braccio e la mano con l’altro. Inclinati in quella che sembra una danza aerea di cui un istante sia stato fotografato, i loro corpi perdono definizione dalla vita in giù per fondersi insieme e diventare una sorta di vento confuso che li lega e li conduce, uniti per sempre in un destino tormentato, in una posa che quasi ricorda l’incessante vortice cui sono condannati Paolo e Francesca.  (foto: Wikipedia)

 

“L’età matura” arriva ancora più prepotente agli occhi dello spettatore già al primo sguardo: una donna, inginocchiata e implorante, ha le mani ancora tese verso l’alto, mentre un uomo, che ha appena sciolto l’intreccio della propria mano dalle sue, si allontana insieme ad un’altra figura femminile che lo porta lontano dalla donna genuflessa. L’immagine è devastante nella sua disperata mestizia e colpisce come un pugno nello stomaco rendendo universale quel complesso senso di abbandono, sofferenza, afflizione che accompagna la fine di un rapporto, mentre l’alternarsi tra zone perfettamente definite e lucide della materia e altre accennate e grezze sembra quasi restituire l’impeto di una lavorazione che risponda a un’urgenza interiore di riversare nella matericità della scultura il traboccante tumulto interiore.  (foto: Wikipedia)

Per le caratteristiche così fortemente intimistiche e psicologiche impresse alle sue opere, Claudel viene oggi considerata pioniera di questo tipo di approccio e antesignana di artiste come Frida Kahlo. 

Alcune delle sue opere sono esposte in una sala dedicata del Museo Rodin di Parigi, ma nel 2017 è stato inaugurato il Museo Camille Claudel a Nogent-sur-Seine, cittadina bucolica dove passa l’adolescenza e dove incontra il suo primo maestro di scultura. Un piccolo passo per restituire la giusta luce, almeno oggi, a questa meravigliosa artista e donna la cui storia, purtroppo, somiglia a quelle di tantissime donne nostre contemporanee, il cui nome spesso ci tocca leggere sul giornale, quando ormai è troppo tardi.

Claude

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