Quando si parla di ritardo diagnostico si intende un ritardo, da parte del personale sanitario, nel diagnosticare, ossia individuare correttamente, una situazione patologica che colpisce una persona e quindi conseguentemente un ritardo anche nell’intervenire con la giusta terapia. Com’è facile dedurre, una situazione del genere ha risvolti dannosi che possono variare nella loro gravità in base alla gravità della situazione che affligge il/la paziente.

Basandosi su statistiche e dati raccolti negli ultimi trent’anni da medicina di genere, studi sociali e studi di genere in numerosi paesi del mondo, è emerso senza dubbio alcuno che i soggetti che più spesso subiscono ritardi diagnostici sono le donne o le persone socializzate donne. Perché?

Perché il ritardo diagnostico ha tutto a che vedere con il modo in cui la nostra società si rapporta alle donne e quindi trascina con sé tutti i bias e le storture che caratterizzano il modello patriarcale in cui viviamo.  In contesto sanitario tale modello prende forma in particolare attraverso il cosiddetto gaslighting medico (ne abbiamo parlato su Instagram), in un susseguirsi di atteggiamenti di delegittimazione e di minimizzazione dei sintomi riferiti dalle pazienti, che spesso costituisce lo standard con cui queste si trovano a scontrarsi ogni volta che interpellano una figura medica per un problema di salute.

La mancanza di attenzione verso il dolore femminile e l’abitudine a invalidarlo, unite alla convinzione che per la donna sia normale soffrire, sono espressione di un radicato sistema culturale, che vuole le donne da un lato destinate alla sofferenza per biblica decisione, dall’altro esseri deboli e inaffidabili, preda delle loro tare mentali e predisposte alla follia (ci ricordiamo le donne rinchiuse in manicomio nell’Ottocento per “isteria”?).

Non sono solo i medici maschi ad agire questo approccio sminuente, ma anche moltissime mediche portatrici di maschilismo interiorizzato, uno dei nodi più problematici e difficili da sciogliere, proprio perché moltissime donne non si rendono nemmeno conto di esserne impregnate e ripetono quindi gli stessi schemi tossici nella vita e nella professione.

Non esiste, ad oggi, nei percorsi universitari e di formazione sanitaria, un’attenzione specificamente dedicata al riconoscimento e allo smantellamento di questo sistema, e di conseguenza dipende tutto dalla sensibilità e dall’intelligenza del personale sanitario.

Per dare l’idea del fenomeno di cui stiamo parlando: una donna che arriva in pronto soccorso con un infarto in corso ha il 46% di probabilità in più di un uomo di morire, perché spesso riceve una diagnosi errata, come gastrite o attacco di panico (eccoci di nuovo, la donna ansiosa che è preda della debolezza della propria mente) e rimandata a casa senza ricevere le cure adeguate.  Ma anche senza arrivare a estremi di questo tipo, il ritardo diagnostico ha comunque un peso enorme sulla salute delle donne: non intervenire tempestivamente significa mandare la persona incontro ad aggravamenti e cronicizzazioni che possono avere conseguenze permanenti e condannare a una vita di dolore e di malattia. C’è anche un risvolto sociale ovviamente, perché più la paziente peggiora, più lo Stato poi dovrà spendere per curarla (pensiamo a ricoveri, visite, terapie, operazioni chirurgiche, etc.). Limitandoci al sistema sanitario italiano, se si tratta di una malattia non riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale (sì, ce ne sono tantissime) e/o non inserita nei LEA (livelli essenziali di assistenza), si profila anche un tema di ingiustizia sociale, perché visite e terapie, tutte in regime privatistico, sono esclusivo appannaggio di chi ha i soldi per pagarsele, mentre la restante parte di malate non si cura e peggiora progressivamente alimentando un circolo vizioso che non accenna a spezzarsi. 

In diversi Paesi inoltre è stato osservato anche come, dal momento che il lavoro di cura non retribuito ricade purtroppo per la grandissima parte sulle spalle delle donne, all’aumento dell’ammalarsi di queste aumenti anche la spesa pubblica, nei casi in cui lo Stato debba prendere in carico la gestione di soggetti anziani o comunque bisognosi, prima interamente assistiti dalla figura femminile del nucleo familiare.

Un altro motivo dei ritardi diagnostici, sempre derivante dal modello culturale patriarcale, è il fatto che per secoli la medicina si è applicata allo studio del solo corpo maschile, elevato a modello neutro valido per tutti e tutte. Fino a metà degli anni Novanta, gli studi clinici e i trial per i medicinali venivano eseguiti esclusivamente su gruppi di soggetti maschili, in particolar modo su uno standard rappresentato dall’uomo bianco di 35 anni e 70 chili: tutti i possibili effetti tossici e collaterali dei farmaci venivano dedotti da questo modello. Ora, immaginatevi cosa voglia dire stabilire una dose di farmaco “per adulti” dando a un soggetto femminile di 18 anni, 1.60 m di altezza e 45 chili di peso, la stessa quantità somministrata a un 35enne di 70 chili. Non proprio la stessa cosa eh? Eppure è sempre stato così, per decenni e decenni. Solo di recente si è cominciato ad effettuare studi separati per il genere femminile scoprendo – sorpresa! – che le donne assimilano, smaltiscono e rispondono diversamente ai principi attivi, che presentano effetti collaterali diversi dagli uomini, che presentano sintomi diversi dagli uomini anche se hanno la stessa patologia (tornando all’esempio dell’infarto, i sintomi femminili differiscono totalmente da quelli maschili). 

A fronte di questa preoccupante panoramica, è necessario conoscere i propri diritti e pretendere di essere ascoltate, di essere credute e di essere curate con coscienza e subito, cambiando specialista se capiamo di non essere prese sul serio.

Ed è necessario fare un appello alla categoria medica, affinché apra gli occhi e interroghi prima di tutto sé stessa per capire questi problemi strutturali, per decostruire questo approccio e costruirne uno nuovo e più sano, sicuramente più gratificante anche per la categoria stessa. 

Meritiamo ascolto, meritiamo di essere credute. Meritiamo la salute.

C.

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